Ma chi sono questi benedetti giudici della «sentenza Sallusti» in Cassazione? Il quintetto con l'ermellino radicato nella Quinta sezione penale della Suprema Corte è presieduto da un noto magistrato, Aldo Grassi, che ha visto la sua vita e la sua carriera improvvisamente stravolta da un vibrante linciaggio mediatico, prima e dopo la decisione del 9 marzo scorso sulla condanna annullata al senatore Marcello Dell'Utri, per via di una sua asserita, antica, colleganza (rimarcata in alcune vecchissime intercettazioni) con il collega «ammazza-sentenze» Corrado Carnevale. Un'onta, a detta dei suoi detrattori antimafia, evidenziata in vecchie conversazioni captate sull'utenza di Carnevale, ininfluenti sul piano penale, allegate comunque al processo dove sempre Carnevale venne assolto. Intercettazioni riesumate e ri-pubblicate per l'occorrenza. Così, per ricordare a tutti chi era quel signore lì. Il giudice Grassi non la prese bene. Forse accusò il colpo. Fatto sta che di lì a poco, ai primi di luglio, avrebbe dovuto dire la sua su un'altra vicenda di assoluto rilievo politico-mediatico, dove le pressioni e le attese si facevano ogni giorno più pesanti: i pestaggi alla scuola Diaz di Genova. Contestualmente ripartì la solita grancassa di veleni e maldicenze. «È il giudice di Dell'Utri». «È l'amico di Carnevale». «È quello che non interruppe al telefono il giudice ammazzasentenze mentre attaccava Falcone...». Improvvisamente Aldo Grassi, per asseriti motivi di salute, abdicò poco prima dell'inizio dell'ultimo grado di giudizio ai primi di luglio. Un cambio a dir poco «curioso», commentarono imputati e legali. Venne sostituito in corsa dalla collega Giuliana Ferrua. Giusto il tempo di assistere alla disarticolazione per via giudiziaria dei vertici della polizia di Stato da parte della «sua» Quinta sezione, e Grassi tempo qualche settimana si riprese fisicamente e tornò al suo posto. Dov'era invece rimasto un altro degli «ermellini» del caso Sallusti, presente anche lui alla condanna dell'élite degli investigatori nazionali per i fatti del G8 del 2001: Gerardo Sabeone, altra toga celebre nei corridoi del Palazzaccio. Già nel collegio che si occupò di Callisto Tanzi per il crac Parmalat, idolo degli animalisti per aver definito in sentenza il maltrattamento delle bestie come reato perseguibile d'ufficio, è collega di Carlo Zaza, autore del libro «il ragionevole dubbio nella logica della prova penale», il quale prima di «condannare» Sallusti, era nella stessa sezione che annullò il concorso esterno per Dell'Utri. Nel 2006, fa parte del collegio giudicante di Brescia che solleva la questione di costituzionalità della legge Pecorella.
E veniamo al relatore. Antonio Bevere, anima storica di Magistratura democratica, direttore della rivista Critica del diritto. Negli anni in cui prestava servizio a Milano come sostituto finì in una rocambolesca vicenda che gli procurò qualche fastidio. Nel libro Il Pistarolo di Marco Nozza, così come si legge nelle cronache di oltre trent'anni fa, viene ricostruita una cena a casa del giudice nel 1978 a cui partecipano il magistrato Emilio Alessandrini, poi ammazzato nel 1979 dai terroristi Prima Linea, e Toni Negri. Bevere viene interrogato per sei ore sui motivi di quella cena, così come Negri che rispose ai pm: «Fu il dottor Bevere a dirmi che il dottor Alessandrini aveva espresso il desiderio di conoscermi e io aderii all'invito perché a mia volta ero curioso di conoscere il magistrato Alessandrini che stimavo, conoscendo certe sue prese di posizione e alcuni suoi scritti». A questa cena a casa di Bevere, durante il sequestro Moro, era presente anche Tiziana Maiolo, in quegli anni cronista del Manifesto, che lo racconterà poi in un dettagliato articolo. Sempre secondo le ricostruzioni dell'epoca, il giudice Alessandrini riferì all'allora sostituto procuratore di Padova, Pietro Calogero, titolare del fascicolo 7 aprile sull'Autonomia operaia, che una delle voci dei telefonisti del sequestro Moro era proprio quella di Toni Negri. Bevere si occupa anche dell'attentato all'editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli, ma viene estromesso dalle indagini dall'allora procuratore capo perché considerato una «toga rossa». Una di quelle toghe che una vecchia interpellanza parlamentare del socialdemocratico Costantino Belluscio, datata aprile 1983, riteneva essere troppo facilmente etichettabile. Tanto che, si legge nell'atto parlamentare, «Bevere al congresso di Rimini del 1977 di Md chiese l'abrograzione e la non utilizzazione della cosiddetta legge Reale, e affermò che l'ordine democratico è turbato dalle ordinanze illegittime del ministero dell'Interno».
Per la cronaca il relatore è sempre uscito indenne da accuse e sospetti. Poi ci sarebbe l'ultimo giudice, Paolo Giovanni Demarchi, ma su di lui c'è poco da dire. Per tutti parla la sentenza Sallusti. Saranno ricordati per questa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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